domenica 24 aprile 2011

Chi sono i veri artefici delle rivoluzioni?

Di seguito, due articoli postati in sequenza da Gianluca Freda sul suo "blogghete" in cui sviscera una lucidissima interpretazione di cause ed effetti (reali) dei movimenti violenti di piazza che tanto piacciono ai media di regime e che nulla di positivo apportano alla causa dei cittadini, illudendoli solo di aver colto qualche briciola di potere.

Quando sostenevo simili tesi nella Toscana degli anni di piombo, mi davano del "fascista" senza capire che erano proprio loro gli alleati più fedeli e manovrabili del regime.

LA RIVOLUZIONE DEI FALLITI

infiltrato?

infiltrato2

“In guerra, lo stratega vittorioso cerca la battaglia solo dopo che la guerra è stata vinta; mentre colui che è destinato alla sconfitta, prima combatte e poi cerca la vittoria”.

[Sun Tzu, “L’arte della guerra”]

Avevo sperato fino all’ultimo che il tizio col giaccone beige che ieri, [14/12/2010, ndr] insieme ad un branco di altri cialtroni senza cervello, ha contribuito a mettere a ferro e fuoco la città di Roma, fosse davvero ciò che sembrava: il solito poliziotto in borghese, con l’incarico di infiltrarsi tra i manifestanti, scatenare l’inferno e giustificare in tal modo (Cossiga docet) la repressione violenta delle proteste. Molti elementi facevano propendere per questo scenario, piuttosto consueto per chi ha un minimo di esperienza in fatto di manifestazioni. Il cialtrone è ritratto mentre impugna un manganello della Guardia di Finanza, agita un paio di manette della Guardia di Finanza e fraternizza (o almeno non si mena) con alcuni poliziotti che, in teoria, dovrebbero sprangarlo di santa ragione. Purtroppo l’ipotesi consolante e illusoria che il manifestante imbecille fosse in realtà un poliziotto infiltrato ha ceduto il passo, con il trascorrere delle ore, ad una rivelazione ben più inquietante e drammatica: il manifestante imbecille era in realtà, insospettabilmente, un manifestante imbecille. A dimostrarlo, oltre ad alcune testimonianze lette in rete che identificano il bell’eroe di cui sopra con un “compagno” dei centri sociali romani, c’è questa foto che lascia poco spazio ai dubbi:

scemo

in essa si vede il farabutto che viene atterrato dai poliziotti e (sperabilmente) arrestato e condotto in un luogo appartato ove i connotati elargitigli da madre natura gli saranno modificati in permanenza con le stesse tecniche da lui suggerite e attivamente sperimentate su tavolini da bar e automobili in sosta.

Naturalmente l’ultima foto non rappresenta una prova definitiva. Potrebbe trattarsi di una messinscena allestita per allontanare i sospetti; potrebbe trattarsi di un fotomontaggio (nella foto la figura del manifestante ha contorni curiosi e presenta un grosso quadrato di pixel anomali proprio in corrispondenza del volto). E potrebbe trattarsi (è l’ipotesi più verosimile, fatto salvo l’emergere di nuovi elementi) della foto autentica di un idiota che subisce il fato spettante agli idioti. E che svanisce dal palcoscenico della sua rintronata “rivoluzione” dopo aver danneggiato quel “sistema di potere” contro il quale aveva eroicamente schierato tutta la propria puberale cialtroneria tanto quanto una scoreggia di mosca danneggerebbe un carrarmato Abrams.

In questo articolo, in ogni caso, non intendo discettare dell’autenticità e del significato, palese o recondito, delle immagini testé presentate. Desidero parlare invece del degrado terminale ed irreversibile dell’ideale rivoluzionario, il quale, complice l’ineffabile clima politico attuale e l’amplificazione telematica della stupidità consentita dai moderni mezzi di comunicazione, ha finito per trasformarsi in chiacchiera da cortile, tanto più fastidiosa quanto più inconsapevolmente trogloditi sono coloro che ne cantano gli osanna. Leggo su diversi siti internet interventi e commenti estasiati sulle bravate dei black bloc romani. “Finalmente si riscopre la violenza politica!”, scrivono alcuni utenti scimuniti, per i quali, a quanto pare, è sufficiente congiungere l’aggettivo “politico” al sostantivo violenza” perché dal forno della nonna esca, calda calda, la Rivoluzione Bolscevica. “Finalmente una protesta seria”, scrivono altri minus habentes, convinti che bullismo e cialtroneria rappresentino l’unico metro di misura della “serietà” di qualunque fenomeno. La celebrità di un divo si misura sulla cafonaggine che egli è in grado di esibire agli occhi ammirati del pubblico; la serietà di un politico si misura dal tasso di insolenze che è in grado di rivolgere agli avversari senza essere zittito; e la “serietà” di un rivoluzionario si misura non dai risultati prodotti dalla sua “rivoluzione”, ma dal numero di panchine sfasciate e di panetterie date alle fiamme. Il cialtrone col montgomery beige è il perfetto prototipo di questi rivoluzionari falliti. Il suo motto è: “Vorrei accoppare i Rothschild, ma siccome non posso, tanto vale fare a pezzi il motorino del mio vicino di casa; sempre meglio che restarsene a casa a scrivere articoli dietro una tastiera”. Consiglierei a questi buffoni di restarsene a lungo dietro le tastiere e di scrivere un bel po’ di articoli. Se non altro faranno lavorare il cervello (ammesso che ne abbiano uno) ed eviteranno di affossare ulteriormente l’idea di rivoluzione, che in bocca a loro suona come una bestemmia. Per fargli capire con un pratico esempio quanto siano efficaci i loro metodi di lotta, gli consiglierei di dare un’occhiata ai volti dei politici ai quali hanno dedicato le loro manganellate di ieri, quelle date e quelle prese. Vi sembrano minimamente preoccupati? Stamattina Berlusconi e i suoi sodali – strano a dirsi – non si sono nemmeno curati di dedicare un commento, che non fosse di circostanza, al putiferio romano di ieri. Hanno cose ben più importanti per la testa che le miserabili scaramucce con gli sbirri di un branco di sfaccendati. Rassegnatevi, cari “rivoluzionari” delle mie ghette: non gliene frega niente di voi. Non contate un cazzo. Ed il fatto che non contiate un cazzo è l’unica cosa che li ha trattenuti, per il momento, dal sobbarcarsi il fastidio di sporcarsi le scarpe schiacciandovi come vermi, cosa che potrebbero fare in qualunque momento. Potete demolire quaranta quartieri romani tutti in fila e loro si limiteranno ad appaltare la ricostruzione ad imprenditori amici, incassando le dovute prebende e ringraziandovi per l’interessamento. Debora Billi ha scritto, un paio di giorni fa, un articolo in cui ipotizzava che i politici iniziassero ad avere paura del vigore “rivoluzionario” dei disadattati giovinastri nostrani. Se quello che scorgo oggi sui volti degli uomini del governo è paura, vuol dire che sono diventati sovrannaturalmente abili nel simulare serena indifferenza e manifesta soddisfazione per le vittorie parlamentari mentre sono attanagliati dal terrore cieco.

Consiglierei di dare un’occhiata anche ai volti dei negozianti romani e dei poveracci che si sono ritrovati l’automobile bruciata, il bar distrutto, il parco giochi sotto casa ridotto ad un letamaio. Quanti adepti credete che avrà guadagnato la causa “rivoluzionaria” nel corso della giornata di ieri fra i cittadini di Roma? Se fossi in loro (e in effetti lo sono) preferirei di gran lunga la violenza mirata e metodica dei celerini alla barbarie scomposta che si accanisce con furia contro le proprietà dei deboli, per poi accasciarsi vigliaccamente, come un sacco di patate in giacca e cappuccio beige, dinanzi alle randellate dei forti. Se fossi nei cittadini di Roma (e lo sono senz’altro), più che ad una “libera collettività anarchica” inizierei ad aspirare ad una teocrazia di stampo iraniano, dove i manifestanti facinorosi e criminali, quando entrano in un carcere, ne escono soltanto appesi ad una corda di canapa.

Quello che questi imbecilli dovrebbero imparare (e impareranno, prima o poi, se l’imbecillità gli consentirà di vivere abbastanza per poterlo fare) è che la violenza non è una strategia. E’ semmai un indispensabile strumento che serve a portare a termine la strategia, una volta che essa è stata approntata. Ma prima bisogna approntarla. E per farlo occorre capire a fondo i meccanismi che stanno dietro i conflitti geopolitici, proporsi obiettivi graduali, imparare a conoscere i punti deboli degli avversari, utilizzare l’astuzia e la diplomazia come risorse primarie e la forza bruta come risorsa ultima, mirata a vincere gli ultimi ostacoli non altrimenti superabili. Bisogna, come avrebbe detto Sun Tzu, conoscere il nemico, non per sentito dire, ma per averlo praticato ed averne studiato i punti di forza e di debolezza da vicino. Bisogna aver passato un bel po’ di tempo a contatto con i nemici, aver fatto parte del loro stesso circolo. Starsene in disparte a fare i duri e puri e a sognare improbabili utopie sociali è atto di stupidità suicida. Lenin, pur di colpire la fazione menscevica del partito, non esitò a collaborare con la polizia zarista e ad accettare come collaboratore Roman Malinowsky, che era un agente dell’Ochrana, la polizia segreta governativa. E’ con la strategia, la determinazione, il compromesso e la pratica di potere che si sconfigge il potere, non attaccandosi alle decrepite parole d’ordine di ideologie morte e sepolte. Tantomeno con le esplosioni occasionali e sguaiate di violenza, che non fanno nemmeno ridere il potere, tanto sono inutili.

Solo i falliti e gli impotenti vivono di ideologia e di sogni; e sono così “coerenti” con i loro dogmi da rifiutarsi di vedere il mondo che cambia, perché non osservano il mondo, ma solo se stessi. Solo i falliti scaricano la propria frustrazione verso il mondo che, inesorabilmente, li esclude, spaccando tutto e appiccando il fuoco a tutto ciò che capita. Lo fanno perché non vogliono affatto cambiare il mondo. Vorrebbero, se potessero, farlo a pezzi per punirlo di averli cacciati fuori dalla sua porta, come se il loro esilio fosse imputabile al mondo e non al rifiuto di guardarlo negli occhi senza il velo di decedute fantasie politiche. Solo i falliti sanno farsi strumentalizzare così efficacemente e così a fondo dal potere da diventare, nelle sue mani, un utile strumento per le “rivoluzioni colorate” prossime venture. Un surrogato artificiale di rivoluzione, una carogna di conflitto sociale rivestita a festa, ma ben manovrata dai potenti, sulla quale i falliti sfasciapanchine si accalcano per fame, non avendo più altra tavola a cui saziarsi. Non si può neppure contare sulla profilassi dei manganelli, sperando che spacchino ossa più rapidamente di quanto i cappucci beige siano in grado di spaccare vetrine. I manganelli non servono a uccidere, ma a convincere. E nessuno è più facile da convincere di un rivoluzionario senza rivoluzione. Uno che farebbe a pezzi una città intera pur di poter assaggiare della rivoluzione una marcia, patetica, miserabile briciola.


COME COSTRUIRE UNA RIVOLUZIONE CHE NON CADA A PEZZI IN DUE GIORNI

Il lettore Mirko [del Gianluca Freda blogghete, ndr] ha scritto nei commenti relativi all’articolo sugli scontri di Roma:

Caspita che articolone...perché non lo completi parlando delle conseguenze della "strategia del compromesso, della determinazione, della pratica di potere utilizzata per sconfiggere il potere"? Così, magari riusciamo ad arrivare alla degenerazione della rivoluzione russa che hai citato... Trai forse godimento dai pestaggi, visti i continui incitamenti alla violenza della celere? Ti sconvolge tanto la vista di due tavolini privati sottratti da un bar privato per essere lanciati, ma non parli della disperazione dei lanciatori d'immondizia di Terzigno e dei terremotati, anche loro in piazza. Secondo il tuo ragionamento è una brutta cosa sporcare Roma con l'immondizia, meglio tacere e respirare diossine in silenzio, non lamentarsi in questo modo "barbaro"...chissà cosa penseranno quelli dei bar... Non capisco, invece, a cosa serva pontificare dalla tastiera come fai tu, dando dei falliti e degli impotenti a chi ancora - e fortunatamente- possiede dei sogni. Mi chiedo come si fa -e come fai- a fare qualsiasi cosa senza il motore dei sogni e dell'utopia? Concludo dicendo che, almeno secondo me, l'altro giorno in piazza si è espressa unicamente la rabbia, forse non è servito a niente, ma era se non altro lecito esprimerla; la violenza, come sempre, è arrivata, e continua ad arrivare, da chi detiene la forza ed il potere. Saluti.

Il lettore ritiene che sogni e utopie siano il motore di ogni cambiamento. Può darsi che questo sia vero per la vita individuale. Ma quando parliamo della progettazione di un cambiamento sociale, sarebbe bene che ci abituassimo a lasciare i sogni nella dimensione che ad essi appartiene di diritto: quella del dormiveglia e delle fantasie notturne. Appaltare le trasformazioni sociali a branchi di sonnambuli e parolai in pigiama, produce, anche nella migliore delle ipotesi, un fastidioso e rumoroso nulla di fatto, ammantato di deliri teoretici, come quelli che siamo abituati ad ascoltare – senza ormai troppa distinzione – tanto nelle parole dei “rivoluzionari” da centro sociale quanto nei discorsi dei “rivoluzionari” da organigramma di sindacato e di partito nel corso delle periodiche ed inutili manifestazioni “di protesta” accalappiagonzi. Nell’ipotesi peggiore (che è poi di gran lunga la più frequente e storicamente diffusa) l’allucinazione utopica produce semplice manovalanza per “rivoluzioni” gestite dal potere ed indirizzate verso scopi esattamente opposti a quelli che i sognatori dormienti vagheggiano mentre si agitano in preda al delirio. Date retta a un fesso: le rivoluzioni, quelle vere, sono roba per persone ben sveglie e con i piedi per terra. Soprattutto, sono roba da élite. Dove, col termine “élite”, non si intende indicare una realtà connotata sul piano della gerarchia economica o sociale, bensì su quello del pragmatismo politico e della pianificazione intellettuale. Pianificazione che, in tutte le rivoluzioni storiche di qualche rilievo, si è sempre attuata attraverso la circolazione delle idee e dei programmi attraverso i mezzi di comunicazione esistenti, tastiere comprese. In ogni rivolgimento sociale di successo c’è una “testa” che dirige le operazioni, rappresentata dall’élite che dispone dei mezzi di comunicazione necessari a diffondere nella massa le idee e le parole d’ordine su cui dovrà fondarsi l’insurrezione; e ci sono moltitudini di “sognatori” senza arte né parte che fungono da semplice carne da cannone. Inutile dire che gli effetti della rivoluzione si rivelano sempre vantaggiosi per l’élite e devastanti per gli utopisti sonnambuli. Non voglio togliere nulla all’utilità di questi ultimi, senza la cui incompetenza e irriflessività politica nessuna rivoluzione sarebbe possibile. Non ce l’ho con i decerebrati spaccatutto che abbiamo visto in azione a Roma, né con i branchi di pecore che transumano periodicamente verso i pascoli della protesta su apposito torpedone sindacale, i quali svolgono egregiamente il proprio ruolo di soldataglia. Ce l’ho con le élite da cui tali moltitudini sono attualmente gestite e manipolate. Perché le finalità perseguite da queste élite di potere sono del tutto antitetiche a ciò che ritengo essere l’interesse attuale del nostro paese, inteso nel suo insieme complessivo di pastori e di mandrie, di colonnelli e di subordinati.

E’ significativo che il lettore scriva: “secondo me, l'altro giorno in piazza si è espressa unicamente la rabbia, forse non è servito a niente, ma era se non altro lecito esprimerla”. E’ una frase che fornisce un’idea precisa della linea di demarcazione che separa i membri dell’élite dai sognatori suoi manovali. L’élite pianifica, organizza, gestisce, manovra la percezione del mondo e la stessa violenza di piazza secondo modalità che sono funzionali ai suoi obiettivi; la carne da cannone è del tutto priva di capacità di decodifica dell’esistente e di schemi progettuali. Possiede solo la sua rabbia istintiva (a cui attribuisce addirittura un valore etico trascendente, trattandosi dell’unica prerogativa a sua disposizione) che ritiene lecito sfogare, una volta superato un certo livello, su qualunque cosa gli capiti a tiro. Come il buon padre di famiglia, che tornando a casa distrutto e frustrato dal lavoro, ritiene legittimo massacrare di botte moglie e figli, visto che su qualcuno dovrà pur sfogarsi. Il mio articolo si intitolava “La rivoluzione dei falliti” e penso che non avrei potuto scegliere titolo migliore.

Nell’articolo in questione citavo, in esergo, una frase tratta da “L’arte della guerra” di Sun Tzu. Mi chiedo che cosa avrebbe pensato l’antico stratega cinese di un “esercito”, come quello visto in azione a Roma il 14 scorso, che attacca battaglia al solo scopo di sfogare la propria frustrazione; che combatte solo nei momenti e nei luoghi che è il nemico a definire, con apposita comunicazione alle truppe; che si lascia guidare verso lo scontro dai generali dell’esercito nemico o dai traditori ad esso venduti, i quali portano bene in vista sulla divisa le stellette sindacali e partitiche di cui sono stati insigniti per la propria fellonia; che nel corso della battaglia non attacca il nemico, ma i propri stessi commilitoni e compagni di sventura, distruggendo le loro proprietà e dando alle fiamme i loro villaggi; che diffonde in questo modo l’odio e il desiderio di defezione tra le proprie stesse fila; che utilizza la violenza a sproposito e contro obiettivi casuali, anziché riservarla (come Sun Tzu suggeriva) alla fase finale della guerra, per suggellare una vittoria già ottenuta attraverso la diplomazia, la comunicazione, l’astuzia e l’inganno. Probabilmente il vecchio cinese non avrebbe destinato ad una simile masnada l’appellativo di “esercito”, limitandosi a considerarla una congrega di scimmie infuriate e a riderci sopra. Ancora più verosimilmente, avrebbe avuto parole di lode e di stima per i generali dell’esercito loro nemico, dimostratisi capaci di ridurre gli avversari alla più assoluta impotenza senza neppure muoversi dal proprio accampamento. “Tutta la guerra è basata sull’inganno. Perciò, quando siamo pronti ad aggredire, dobbiamo apparire impreparati; quando adoperiamo le nostre forze, dobbiamo sembrare inattivi; quando siamo vicini, dobbiamo far credere al nemico che siamo lontani; quando siamo lontani, dobbiamo fargli credere che siamo vicini. Tieni pronte le esche per allettare il nemico. Fomenta disordini e schiaccialo”.

Per quanto implacabile sia il mio odio per le strutture sovranazionali, economiche e politiche, che hanno ridotto in servitù il nostro paese, devo riconoscere ai loro generali una capacità strategica un miliardo di volte superiore a quella dei cialtroni visti in azione nelle piazze nostrane. E’ normale, del resto: non a caso loro sono l’élite, mentre i cialtroni di cui sopra sono la marmaglia inconsapevole che viene manovrata per il conseguimento degli obiettivi predefiniti. Immagino che, nel caso in questione, l’obiettivo – o uno degli obiettivi - fosse quello di defenestrare un governo, pessimo sì, ma dimostratosi troppo indipendente e refrattario agli ordini nell’ambito della politica estera. Eppure, nonostante l’ottima strategia messa in campo, l’élite dominante sembra, per il momento, avere fallito. Il governo incriminato è rimasto in carica, sia pure per tre soli voti di maggioranza. I suoi avversari politici sono ora allo sbando, compresi i rinnegati finiani così accuratamente costruiti e finanziati, costretti ad annullarsi nella macedonia immonda di un elettoralmente improponibile “terzo polo”, che prefigura la loro prossima estinzione. Bisogna chiedersi: perchè hanno fallito? Perché la marmaglia antiberlusconiana, inviata a deporre il rinnegato governatore della colonia, pur debitamente infiltrata da operativi del nemico, non è riuscita per adesso a perseguire il risultato agognato?

Il motivo è semplice: non esiste più un’unica élite. Nell’epoca della ridefinizione degli assetti geopolitici globali, le élite che si contendono il controllo delle masse e la loro sudditanza alle parole d’ordine sono diventate una pluralità. La vecchia nomenclatura dirigente rispolvera i vetusti schemi interpretativi del mondo organizzati per dicotomie (“fascismo-comunismo”, “democrazia-dittatura”, “berlusconiano-antiberlusconiano”, “razzista-antirazzista” e via bipolarizzando), mentre il nuovo gotha che ad esse contende il potere prova ad inserirsi nel gioco della manipolazione delle coscienze con altri modelli prefabbricati e narrazioni alternative. Questa battaglia per il controllo delle moltitudini si combatte (come del resto è sempre avvenuto nel corso della storia) nel campo dell’informazione e dell’entertainment. Cioè proprio dietro quelle tastiere che i pasdaran della rivoluzione di piazza sono stati abituati – un po’ per insipienza politica, un po’ per programmazione culturale abilmente somministrata dagli strateghi del nemico – a disprezzare e sbeffeggiare. E’ dietro le tastiere del web, delle redazioni giornalistiche, delle case editrici che vengono definiti e perfezionati i nuovi modelli percettivi e di pensiero cui le masse dovranno conformare la propria visione del mondo nei decenni futuri. E’ dietro le tastiere dei programmatori che vengono studiati i nuovi contenuti web, attraverso i quali i mezzi di comunicazione telematica verranno gestiti per le finalità di dominio proprie della classe intellettuale che uscirà vincitrice dallo scontro. E’ sempre dietro le tastiere che nascono i social network come Facebook, utili a rimbecillire e rendere controllabili, analfabetizzandole, le nuove generazioni; o come Twitter, attraverso i cui canali già viaggiano le direttive e gli ordini per la gestione delle “rivoluzioni colorate” fomentate dal potere (come si è visto in occasione della famigerata “rivoluzione verde” iraniana); o i nuovi templi dell’informazione “alternativa” come Wikileaks, creati allo scopo di soppiantare l’informazione libera del web, sostituendo ad essa un’autorevole e ponderosa massa di nulla oggettivo, privo di qualunque elaborazione critica.

In questo scontro di nomenclature, come sempre, i facinorosi guastatori di piazza rivestiranno il ruolo di truppe d’assalto, agli ordini dell’organizzazione di potere che riuscirà a vincere la guerra dell’informazione.

Occorre dunque decidere – e decidere adesso – se desideriamo rivestire il ruolo di soldati che subiscono la rivoluzione prossima ventura o di progettisti che la pianificano e la manovrano. Rivolgo pertanto un appello a tutte le menti razionali che, ritrovatesi martedì scorso nel bel mezzo di una guerra alla cui progettazione non avevano in alcun modo contribuito, abbiano sentito “a pelle” di trovarsi nel livello sbagliato della gerarchia. Invito tutti costoro a lasciar perdere le molotov, le risse coi celerini e gli scudi di cartone e a venire dietro le tastiere, dove c’è urgente bisogno di loro. Di truppaglia mercenaria da gettare allo sbaraglio contro il nemico ne abbiamo anche troppa. Ci servono generali, strateghi, programmatori, psicologi delle masse, scrittori, articolisti, ministri della (nostra) propaganda. E’ con questi strumenti e solo con questi che si organizzano e soprattutto – come avrebbe detto con saggezza il vecchio Sun Tzu – si può provare a vincere le guerre e le rivoluzioni.

Gianluca Freda